Le orche di Genova, un anno dopo

Era esattamente un anno fa, e mentre lavoravo al computer tenevo un occhio sempre su Whatsapp; poi andavo a dormire col cellulare bene in vista sul comodino, in apprensione ad ogni ding che poteva segnalare un messaggio. La vicenda delle quattro orche entrate nel Mediterraneo stava prendendo una brutta piega  e avrebbe condizionato il nostro quotidiano ancora per molti giorni – il mio e quello di tanti colleghi ricercatori e non. Tutti si interrogavano sul perché una famiglia di orche, specie non mediterranea, stazionasse da giorni praticamente dentro a uno dei porti più trafficati al mondo.

Molte cose sono successe nel mondo da allora, ma non abbiamo dimenticato quelle orche: nell’anniversario, ho voluto dipingere una delle due che ha colpito di più gli umani: la femmina, chiamata “Zena”, mamma del cucciolo che era morto quando il gruppetto già stazionava davanti al porto di Genova Pra. E che per quattro giorni si era rifiutata di lasciare andare il cadaverino, tenendolo in superficie, come per farlo respirare.

Come in tutti i dipinti di cetacei che sto realizzando, non è un esponente qualsiasi di quella o questa specie che voglio ritrarre, ma un individuo ben preciso. E’ vero che le orche si assomigliano un po’ tutte, ma ci sono piccoli dettagli che permettono di distinguere gli individui; in questo caso le sfumature nella “sella”, evidenziata nel tondo.

L’altro individuo che probabilmente sarà rimasto impresso a molti, è Riptide, l’unico maschio della famiglia. Era il più evidente, con la sua enorme pinna dorsale che si stagliava a ridosso dei palazzi della periferia genovese. E’, con ogni probabilità, l’ultimo sopravvissuto, avvistato al largo delle coste del nord-Africa dopo che le tre femmine che lo accompagnavano erano scomparse una ad una.

Ho raccontato la vicenda nel libro “Balene salvateci!”, almeno in parte, per quanto se ne sapeva al momento di andare in stampa. Quanto alle cause che hanno fatto sì che un gruppo di orche entrasse in Mediterraneo per morirvi senza neanche provare a uscire, restano un mistero; apparentemente i cetacei, via via sempre più magri ed emaciati, non mangiavano. Non sono stati in grado di cacciare in un ambiente per loro insolito? Avevano una malattia che li ha lentamente debilitati?

Oltre che una parte nel mio, a Zena è stato dedicato un libro intero, di Andrea Izzotti, con una chiave di lettura dichiaratamente non scientifica, ma tutta “umana”.

Dopotutto l’importante è che non ci si dimentichi di una famiglia di orche, emblema dei tanti cetacei che ogni giorno faticano a sopravvivere. Non sappiamo se è questo il caso, ma in genere è fin troppo spesso a causa dell’uomo. Maddalena Jahoda

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