Le orche di Genova, un anno dopo

Era esattamente un anno fa, e mentre lavoravo al computer tenevo un occhio sempre su Whatsapp; poi andavo a dormire col cellulare bene in vista sul comodino, in apprensione ad ogni ding che poteva segnalare un messaggio. La vicenda delle quattro orche entrate nel Mediterraneo stava prendendo una brutta piega  e avrebbe condizionato il nostro quotidiano ancora per molti giorni – il mio e quello di tanti colleghi ricercatori e non. Tutti si interrogavano sul perché una famiglia di orche, specie non mediterranea, stazionasse da giorni praticamente dentro a uno dei porti più trafficati al mondo.

Molte cose sono successe nel mondo da allora, ma non abbiamo dimenticato quelle orche: nell’anniversario, ho voluto dipingere una delle due che ha colpito di più gli umani: la femmina, chiamata “Zena”, mamma del cucciolo che era morto quando il gruppetto già stazionava davanti al porto di Genova Pra. E che per quattro giorni si era rifiutata di lasciare andare il cadaverino, tenendolo in superficie, come per farlo respirare.

Come in tutti i dipinti di cetacei che sto realizzando, non è un esponente qualsiasi di quella o questa specie che voglio ritrarre, ma un individuo ben preciso. E’ vero che le orche si assomigliano un po’ tutte, ma ci sono piccoli dettagli che permettono di distinguere gli individui; in questo caso le sfumature nella “sella”, evidenziata nel tondo.

L’altro individuo che probabilmente sarà rimasto impresso a molti, è Riptide, l’unico maschio della famiglia. Era il più evidente, con la sua enorme pinna dorsale che si stagliava a ridosso dei palazzi della periferia genovese. E’, con ogni probabilità, l’ultimo sopravvissuto, avvistato al largo delle coste del nord-Africa dopo che le tre femmine che lo accompagnavano erano scomparse una ad una.

Ho raccontato la vicenda nel libro “Balene salvateci!”, almeno in parte, per quanto se ne sapeva al momento di andare in stampa. Quanto alle cause che hanno fatto sì che un gruppo di orche entrasse in Mediterraneo per morirvi senza neanche provare a uscire, restano un mistero; apparentemente i cetacei, via via sempre più magri ed emaciati, non mangiavano. Non sono stati in grado di cacciare in un ambiente per loro insolito? Avevano una malattia che li ha lentamente debilitati?

Oltre che una parte nel mio, a Zena è stato dedicato un libro intero, di Andrea Izzotti, con una chiave di lettura dichiaratamente non scientifica, ma tutta “umana”.

Dopotutto l’importante è che non ci si dimentichi di una famiglia di orche, emblema dei tanti cetacei che ogni giorno faticano a sopravvivere. Non sappiamo se è questo il caso, ma in genere è fin troppo spesso a causa dell’uomo. Maddalena Jahoda

I diritti di Lolita

Quando si parla di aborigeni e balene quasi sempre ci si riferisce ai permessi per la caccia concessa a varie tribu in deroga alla moratoria internazionale. Questa volta invece la cultura tradizionale dei nativi americani viene invocata per tutt’altro scopo: per liberare un’orca in cattività.  Ma andiamo con ordine.

Nell’agosto del 1970 un’intera flottiglia di barche, guidate dall’alto da un aereo, saltavano furiosamente sulle onde, gli uomini a bordo con l’adrenalina alle stelle.

Le orche del Pudget Sound, sulla costa del Pacifico, sapevano esattamente cosa le stava aspettando e le mamme si allontanarono con i piccoli protetti al centro del gruppo. Ma fu inutile: le barche, piombando sulle orche e le accerchiarono, stesero una rete chiudendo ogni via di fuga.

Fu il panico, ma ciononostante i grossi delfini bianchi e neri cercavano di restare uniti e di tenersi i cuccioli vicini. Avevano già vissuto quell’esperienza: era un piccolo che gli inseguitori volevano. A nulla valsero gli sforzi delle mamme. Gli umani ne individuarono uno, lo catturarono e lo issarono su una specie di barella per poi appoggiarlo sul fondo della barca.

Ma mentre i cacciatori di orche si apprestavano a sistemare l’attrezzatura e a riprendere la corsa per tornare in porto con il loro bottino che, ceduto a un delfinario, valeva decine di migliaia di dollari, notarono qualcosa che non si erano aspettati. Era passata quasi un’ora, ma gli altri membri del branco, scampati alla caccia, erano ancora lì. Nella violenta battuta , cinque orche erano affogate;  quattro erano dei piccoli. Ma i superstiti, pur liberati dalla rete non si erano allontanati. Emettevano dei suoni, girando freneticamente intorno alla barca. Non se ne andavano, pur sapendo che anche loro rischiavano di essere catturati. La famiglia non voleva abbandonare il piccolo e continuava a chiamarlo. E la giovane orca, due anni appena, fuori dall’acqua, imbracata e bloccata sulla barca in una posizione innaturale, incapace di muoversi, rispondeva con quelle che chiunque avrebbe interpretato come grida disperate alla mamma.

Quel piccolo non vedrà mai più la sua famiglia; Lolita, come la chiameranno al Miami Seaquarium, vive da cinquant’anni in una vasca di cemento. (da: BALENE SALVATECI!” Ed Mursia)

Raynell Morris, una signora della “nazione” dei nativi Lummi, non è la prima a chiedere la liberazione dell’orca Lolita, ma la sua idea su come ottenerlo è senz’altro la più originale. In USA c’è una legge che potrebbe essere la chiave di volta, anche se non era certo concepita pensando ai cetacei. Si tratta del Native American Graves Protection and Repatriation Act (NAGPRA) che prevede la restituzione di oggetti di importanza culturale ai nativi americani a titolo di risarcimento per i soprusi storici subiti.

Lolita proviene da una delle tre famiglie di oche (pod) che costituiscono le “residenti meridionali”, per inciso  oggi gravemente minacciate, che vivono lungo le coste dello Stato di Washington, zona che coincide con gli antichi territori del Lummi. Per questi nativi,  i mammiferi marini, qwe’lhol’mechen, considerati i loro corrispettivi in mare, sono sacri.

L’idea di Raynell Morris è semplice: appellarsi al NAGPRA per imporre al Miami Seaquarium la restituzione dell’orca e la rimessa in libertà. Se la spunterà, sarebbe la prima volta che questo principio viene applicato a un essere vivente.

C’è da dire che far riadattare un’orca alla vita in mare dopo 50 anni di cattività è un’impresa dalle prospettive incerte. L’unico precedente, la liberazione dell’orca Keiko (“Free Willy”) nel nord-Atlantico, non ha funzionato. Ma chissà, forse il pod di Lolita, con una “cultura” completamente diversa, potrebbe riconoscerla e riaccoglierla. Nonostante tutto, forse glielo dobbiamo.

Maddalena Jahoda

Foto di Jacqueline Schmid da Pixabay

POSSIAMO SALVARE CODAMOZZA?

So per certo che tutte le informazioni che mi accingo a scrivere sono sensate e accreditate, eppure spero con tutto il cuore che qualcuno sia in grado di darmi torto.

Curo la pagina Facebook dell’Istituto Tethys, organizzazione non-profit per la ricerca e la salvaguardia dei cetacei, di cui faccio parte da oltre 30 anni. Mai come in questi giorni mi scrivono, commentano, implorano: possibile che non fate niente per Codamozza, la balenottera comune rimasta con uno spaventoso moncone al posto della pinna caudale e che da mesi gira per il Mediterraneo,? E’ magra ed emaciata, probabilmente alla disperata ricerca del krill che sembra avere difficoltà ad andare a inghiottire in profondità. Conosco Codamozza fin dal 2005, quando mi apparve, proprio di fianco alla barca, tirando fuori la coda che già allora era menomata di quasi tutto un lobo, ma che allora le consentiva evidentemente ancora una vita normale.

Cosa si può fare? Ecco le risposte più logiche.

Applicare una protesi?

E’ stato fatto con un delfino e, credo, sia stato fatto anche un film. Ma si trattava di un animale in cattività, quindi un ambiente controllato. Con Codamozza il problema non è tanto costruire la protesi, mi dicono che forse è fattibile in 3D, ma come applicargliela?

Bisognerebbe innanzitutto avere una vasca in grado di ospitare un animale di 20 metri di lunghezza, che oltretutto è abituato a muoversi. L’alternativa potrebbe essere una zona di mare recintata. Ma anche ammesso di disporre di una struttura o zona adatta resterebbe il problema di come portarcela.

Catturare un cetaceo che può pesare 40-50 tonnellate non è un’impresa da poco: con una rete rischierebbe di affogare, (i cetacei respirano aria a differenza dei pesci) per non parlare dello stress della cattura, che spesso uccide anche animali al confronto più “gestibili” come i delfini.

Qualcuno propone di tentare di applicare una protesi avvicinandola in mare. Ma le balenottere sono “animali da corsa” e anche senza caudale Codamozza percorre qualcosa come 100 km al giorno. Altri, di farle un’anestesia “al volo” e operarla: i cetacei non possono essere anestetizzati perché hanno la respirazione volontaria, il che vuol dire che a differenza della nostra specie smetterebbero di respirare.

Darle da mangiare?

Codamozza è spaventosamente magra, o perché non riesce ad andare in profondità dove in genere cattura il krill, e/o perché ha un consumo energentico molto elevato per lo sforzo di nuotare senza coda, che è l’organo propulsore. Apparentemente infatti si aiuta con le pettorali e con un movimento di tutto il corpo. L’idea di darle da mangiare forse appare leggermente più proponibile. Nelle Filippine c’è un posto dove una decina di squali balena, che filtrano plancton in maniera molto simile ai misticeti, vengono foraggiati perché i turisti possano poi nuotare con loro. Codamozza dovrebbe mangiare da 1,5 a 2 tonnellate al giorno di krill (minuscoli gamberetti della specie Meganyctiphanes norvegica). Forse si adatterebbe a mangiarli morti, o glieli si potrebbero fornire vivi, e probabilmente li accetterebbe anche in superficie (in certe zone le balenottere mangiano anche lì). La difficoltà sarebbe trovare dove sia ogni giorno, dal momento che finora si è spostata in continuazione. Uno spiraglio: forse si fermerebbe nel posto in cui le si dà da mangiare? Questo implicherebbe comunque fornirle una enorme quantità di cibo per il resto della sua vita.

Questo ci dice il buon senso, la scienza, e l’esperienza che abbiamo con questi animali, certo ancora misteriosi per molti aspetti. Ho riportato i concetti senza alcun cinismo né rassegnazione alla morte del povero animale di molto degli addetti ai lavori. Anzi, non ho smesso un attimo di scervellarmi su cosa davvero si potesse fare. Spero ancora di svegliarmi una notte con improvvisamente un’idea a cui nessuno aveva pensato o che qualcun altro, non importa chi, se ne esca con una soluzione fattibile. Se servisse, il krill glielo andrei a portare a nuoto, di persona.

Intanto Codamozza naviga anche sui social, tra i commenti fantasiosi, commiserveoli o indignati dei fan. Facebook me ne propone una gran quantità; l’algoritmo notoriamente ti mostra quello che crede – spesso a ragione – che ti interessi. Il risultato è la cosiddetta echo-chamber. In soldoni: ti sembra che tutto il mondo non parli d’altro che di questo (nel mio caso Codamozza). La realtà però è ben diversa: moltissima gente non ha la più pallida idea di cosa facciamo ai mari, agli animali, all’ambiente, né cosa abbiamo fatto a Codamozza, quasi sicuramente vittima o di una rete o lenza, o di una collisione con una nave – e per ben due volte, dal momento che già più di 20 anni fa aveva una pmenomazione.

Quello che nel mio piccolo posso fare è raccontare questa storia, raccontarla raccontarla.

Urlarla.

Con post, articoli, interviste, libri e magari dipinti. Perché tutti sappiano e non ci siano più altre Codamozza nei mari.

Maddalena Jahoda

foto di Carmelo Isgrò, Museo del Mare di Milazzo

LA TERRIBILE STORIA DI CODAMOZZA

Avvistammo quella insolita balenottera per la prima volta nel lontano 2005; era “strana” perché quando si immergeva sollevava la coda fuori dall’acqua, cosa che le sue cospecifiche, tipicamente non fanno. Ma fu solo alla seconda occhiata che mi resi conto della vera anomalia: le mancava gran parte del lobo sinistro della pinna caudale. Era questo, con ogni probabilità, che la costringeva a immergersi con un’angolazione diversa, insomma era un po’ come se zoppicasse.

La battezzammo d’impulso “Codamozza” e mai come ora l’epiteto sembra azzeccato: da ottobre il povero animale infatti ha perso completamente la coda e vaga per il Mediterraneo sempre più debilitata; mancando dell’organo che normalmente garantisce la propulsione sembra incapace di immergersi e quindi di alimentarsi.

All’epoca, Codamozza sembrava gradire il soggiorno nel Santuario Pelagos, dove si fece rivedere per vari anni, da noi di Tethys e da diversi altri colleghi che operano nella zona. La balenottera handicappata era diventata un po’ la mascotte  del Santuario, simbolo della volontà di sopravvivere anche alle peggiori minacce che incombono sui mammiferi marini – quasi sempre provenienti dall’uomo. Finché un giorno, la situazione precipitò.

Ecco qui la sua storia, ricostruita fino a domenica 14 giugno. Al momento non si hanno altre segnalazioni di Codamozza.

Codamozza nel 2005 (in alto) e nel giugno 2020.

La balenottera comune (Balaenoptera physalus) completamente senza pinna caudale, già segnalata nei giorni scorsi al largo della Calabria e nel golfo di Catania, domenica 14 giugno si è avventurata nelle trafficatissime acque dello stretto di Messina, scortata e monitorata dalla Guardia Costiera con l’aiuto di Carmelo Isgrò del MuMa-Museo del Mare di Milazzo, per evitare una collisione con i traghetti.  Secondo la ricostruzione dei ricercatori il cetaceo, che appartiene alla seconda specie più grande mai esistita, ha coperto, nonostante il suo handicap, migliaia di chilometri. L’animale senza coda era stato infatti avvistato già nell’ottobre scorso al largo della Spagna e delle Francia, e successivamente in Siria e poi in Grecia.

La prima segnalazione in Sicilia era pervenuta sabato a MareCamp, Associazione Onlus operativa nel golfo di Catania per il monitoraggio e la conservazione di balene e delfini, dal pescatore artigianale ripostese Antonio Costanzo e successive segnalazioni della presenza della grande cetaceo nelle acque del capoluogo etneo erano giunte anche alla Sala Operativa della Capitaneria di porto di Catania.

Si tratta in realtà di un individuo ben conosciuto soprattutto nel Santuario Pelagos, la grande area protetta transnazionale che comprende mar Ligure, di Corsica e Tirreno; è parte del catalogo di foto-identificazione dell’Istituto Tethys, la non-profit che da oltre 30 anni studia i mammiferi marini del Mediterraneo per la loro tutela; i suoi ricercatori avevano avvistato questa balenottera la prima volta nel 2005, con già metà della coda mancante.

Dall’esame dei segni sul corpo e in particolare di un’ulteriore piccola cicatrice davanti alla pinna dorsale è stato possibile confermare che la balenottera avvistata in Spagna e quella di Catania è proprio “Codamozza”; con ogni probabilità quindi si tratta sempre della stessa anche nel caso della Grecia e della Calabria.

La balenottera senza coda nuota inn maniera sorprendentemente veloce considerata la sua menomazione. Tende però a restare in superficie, senza compiere le lunghe e periodiche immersioni come sarebbe invece normale. Inoltre appare molto emaciata con profonde incavature sui fianchi. Tutto farebbe pensare che non riesca ad alimentarsi.

Quanto alle possibili cause, per la coda tagliata a suo tempo, si era ipotizzata una collisione con una nave; Tethys conduce infatti ricerche proprio su questo argomento, tra cui il progetto “Ship Strikes” finanziato dall’Accordo Pelagos, con lo scopo di valutare il fenomeno, sempre più grave con l’aumento del traffico marittimo, e suggerire possibili misure di mitigazione.

Ora ci si interroga su come sia potuta avvenire questa ulteriore mutilazione: un’altra collisione oppure una lenza o una rete che dopo essere stata stretta a lungo sul peduncolo caudale abbia causato una necrosi e la successiva perdita della coda? La seconda possibilità sembra la più plausibile secondo i veterinari del CReDiMa (Centro di referenza nazionale per le indagini diagnostiche sui mammiferi marini spiaggiati) e del CERT (unità di intervento italiana del Cetacean’s Strandig Emergency Response Team), anche se non è da escludersi completamente un taglio dovuto a un’elica. Le condizioni dello sfortunato animale non lasciano ben sperare: anche se riesce a spostarsi in superficie nonostante la mutilazione, non pare riuscire a darsi la spinta per compiere immersioni profonde per nutrirsi.

Raccomandiamo di non causare ulteriore stress all’animale avvicinandolo con le barche e di avvertire la Guardia Costiera in caso di avvistamento nei prossimi giorni. Maddalena Jahoda

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IL GRANDE SILENZIO

mare e onde

Uno dei primi posti in cui si erano sviluppati era in Cina, e più tardi le terre che circondano il mar Mediterraneo. All’inizio nessuno avrebbe pensato che la loro espansione fosse un fenomeno preoccupante, in fondo erano organismi come tanti altri, la cui presenza sulla terra poteva essere del tutto insignificante. Purtroppo sbagliavamo e avremmo pagato caro questo errore di valutazione.

Dalle prime regioni si diffusero presto, insediandosi in breve tempo in spazi sempre più ampi. Le colonie si allargarono a macchia d’olio e ne formarono altre, ancora più estese. Alcune divennero più grandi di quanto ci si potesse immaginare fino a invadere ogni lembo di terra disponibile. Solo le zone polari, coperte da ghiacci perenni, furono in parte risparmiate.

La letalità di queste nuove forme di vita si rivelò ben presto in tutta la sua devastante potenza; se ti prendevano di mira e ti colpivano, eri morto, o nella migliore delle ipotesi l’attacco con armi sempre più potenti, ti devastava il corpo irrimediabilmente abbandonandoti a una morte lenta e inesorabile. Intere famiglie, intere popolazioni furono così spazzate via, nel giro di pochissimi anni.

Tanto che a un certo punto eravamo così pochi che non valeva più la pena darci la caccia: loro divennero meno aggressivi, le vittime calarono drasicamente e gli attacchi mortali si limitarono ad alcune ben precise regioni: Giappone, Norvegia, Islanda, Isole Faroer. Negli altri posti, perlopiù ci ignoravano.

Non per questo la loro presenza non ha effetti: in ogni posto in cui vivono formano rapidamente delle “concrezioni” dure, molto estese, a volte anche molto alte, che impediscono alla vegetazione di crescere e di conseguenza a molti animali di avere un posto in cui vivere. Loro ci si riparano, e non sentono il freddo, il caldo, il vento, la pioggia. Un altro effetto di questi insediamenti è la massiccia produzione di gas e di calore.

Si pensava che gli umani fossero forme di vita esclusivamente terrestri, e questo aveva dato un falso senso di sicurezza a noi mammiferi marini. Ma la loro presenza in mare divenne costante, e qui si aggiunse un altro effetto: un rumore assordante. Delle strutture galleggianti, veloci e turbolente, sempre più grandi, riempivano ogni mare e ogni oceano. Spesso, si lasciavano dietro qualcosa di pericolosissimo: delle reti che imprigionano e soffocano qualunque animale vi ci finisca dentro, non solo balene e delfini ma anche tartarughe, pesci e uccelli marini. Dalla costa invece giungeva fino a noi una incredibile quantità di oggetti, di ogni forma e colore, che si spezzettano ma non si disintegrano mai. Loro la chiamano “plastica”.

Poi un giorno, improvvisamente, scese il silenzio. Le scatole galleggianti si fermarono, gli insediamenti smisero di produrre buona parte del loro calore e rumore. Noi cetacei tornammo a sentire le nostre voci e potevamo di nuovo comunicare da una parte all’altra dei mari; non c’era più il rischio di essere investiti quando tornavamo in superficie a respirare. I delfini tornarono ad andare a mangiare i cefali vicino alle coste, qualche balenottera si arrischiò fino nei porti, dove le scatole galleggianti dondolavano appena, saldamente legate alla riva.

Prima si era fermata proprio quella Cina da dove,  millenni fa, era partita la “civiltà” umana, poi toccò a una penisola a forma di stivale che si protende in un mare che – anche questo – loro chiamavano la “culla della civiltà”. Poi si fermò anche tutto il resto.

Gli umani che avevano invaso il pianeta, erano stati a loro volta colpiti da un potente virus. M.J.

balena franca australe

Aumenta la temperatura, aumentano le collisioni

 Un aggiornamento al capitolo: L’estinzione può attendere

Le collisioni con le navi sono uno dei problemi dei grandi cetacei, dovuti alla massiccia presenza umana in mare. E con il riscaldamento globale, aumenta la temperatura, aumentano le collisioni. Particolarmente colpite da questo fenomeno sono, tra gli altri,  le rarissime balene franche. Ma qual è il rapporto fra questi due elementi?

Lo spiega un articolo pubblicato on line da Associated Press: in California le collisioni sono triplicate nel 2018, nel New England sono di nuovo in amento dopo che erano calate. In ogni caso si teme che questi disastrosi eventi siano sottostimati perché in molti casi le vittime vanno a fondo e non vengono quindi nemmeno notate.

Tutto questo succede perché con l’aumento della temperatura gli animali tendono a frequentare zone diverse da quelle consuete in cui godono di protezione. È proprio il caso delle balene franche lungo la costa atlantica degli Stati Uniti per le quali erano addirittura state spostate alcune linee di navigazione e imposta una velocità ridotta. Spostandosi più a nord finiscono per sconfinare in zone che non sono “preparate” e dove non sono in vigore queste misure di protezione.

E non è tutto: con lo scioglimento dei ghiacci si prevede che si apriranno nuove rotte commerciali, soprattutto al polo Nord, esponendo così allo stesso pericolo anche specie artiche, che finora erano stata risparmiate.

leggi di più (in inglese)

Scienziati da casa

Oggi la scienza si avvale sempre di più di non-scienziati per raccogliere dati, e a volte analizzarli. Si chiama “citizen science” e può avere le più diverse modalità, dal contare le balene che migrano lungo le coste al classificare nuove stelle, al trascrivere manoscritti. Per la ricerca, spesso a corto di fondi, soprattutto nei campi che hanno hanno grandi interessi economici alle spalle (lo studio dei cetacei è uno di quelli) spesso è un aiuto essenziale, e non serve essere esperti. Si può fare anche da casa e un sito che offre tantissima scelta è zooniverse. https://www.zooniverse.org : dal penguin watch alla scoperta di nuove galassie.

In “Balene salvateci!” se ne parla nel capitolo “Satelliti e videogames”.

L'Oceano della serie Nature is speaking

Ascoltate: l’Oceano ci parla

Capitolo “Salviamoci a vicenda”

… e ha da dirci qualcosa di importante. In un momento in cui tutti ci chiediamo dove andrà a finire il nostro pianeta, e la nostra specie in particolare, guardate questo breve ma efficacissimo video, parte di una serie geniale che si chiama “Nature is speaking” (Parla la natura) . Questo è quello sull’oceano, con la voce di Harrison Ford. E’ quello a cui faccio riferimento nel capitolo “Salviamoci a vicenda” del libro “Balene salvateci!” E’ in inglese, ma si capisce facilmente. In ogni caso, qui una traduzione

Peraltro, non è l’unico della serie: parla anche la natura, parlano i ghiacci, parlano un po’ tutti gli elementi che stiamo bistrattando. E vale la pena di starli a sentire!

#balenesalvateci #lemiebalene #mursia #MaddalenaJahoda #cetacei #balene #delfini #ambiente #sostenibilità #cambiamenticlimatici #effettoserra #tutelaambientale

La hit parade delle megattere

Perché le megattere cantano? Qui una bellissima infografica che lo spiega (in inglese). In sintesi: in acqua i suoni viaggiano 4 volte meglio che nell’aria; per contro, la luce penetra solo per pochi metri. Quindi i cetacei utilizzano ampiamente i suoni per comunicare. Le megattere hanno portato questa capacità ai massimi livelli, e si producono in vere e proprie canzoni, con frasi, temi e strofe. E, particolare che forse facciamo fatica a immaginare – non hanno bisogno di espirare per produrre suoni, perché riciclano l’aria che hanno nelle vie aree; ricordiamoci che tutto questo avviene sott’acqua, in apnea!

Chi canta sono i maschi, e si pensa che sia per attirare le femmine. E sembra che chi canta il motivo più “di moda” sia considerato più attraente. Sì, perché in ogni regione la hit parade è diversa e soprattutto cambia col tempo. Le mode si propagano da una regione all’altra e si evolvono…

Ma al di là di quella che a noi può sembrare una curiosità, cantare è importante per la sopravvivenza di questa specie. Ecco perché l’inquinamento acustico, che tende a coprire anche le frequenze utilizzate dai cetacei, può essere deleterio.

https://www.facebook.com/watch/?v=1349647328381803
cartello ristorante con carne di balenottera minore

Andate in vacanza? Non mangiate le balene!

“Di fatto, la bella balenottera che ammirate durante la gita di whale watching la mattina, nel pomeriggio potrebbe essere arpionata, squartata e proposta la sera come piatto fresco del giorno.”

Nel capitolo “I nuovi capitani Achab”, su un inaspettato e subdolo ritorno alla anacronistica caccia ai grandi cetacei: per proporla ai tursiti. NON ORDINATELA! Su questa pagina della Whale and Dolphin, la charity britannica per la protezione dei cetacei, tutti i dettagli (in inglese)